Un ministro che rimette il mandato «nelle mani di Bossi e
Berlusconi» dal punto di vista istituzionale compie già
un gesto irrituale: più che dimettersi, l’impressione
è che minacci semplicemente di farlo. Ma anche politicamente,
la mossa compiuta ieri sera da Roberto Calderoli, l'erede del «Senatur»
alle Riforme, più che irrituale appare inverosimile. L'evocazione
di «sabotatori nella maggioranza» che frenerebbero il
federalismo in Parlamento; la sottolineatura dei «bocconi
indigesti» che la Lega avrebbe ingoiato pur di acciuffare
l'agognata devolution ; perfino il riferimento ad alcune «alte
cariche istituzionali» che remerebbero contro il riformismo
lumbard: si tratta di un elenco di recriminazioni classiche, gettate
fra i piedi degli alleati ogni volta che ritiene necessario alzare
il proprio profilo.
La sensazione è che Calderoli, e dietro di lui il padre-padrone
della Lega, Umberto Bossi, abbiano battuto un colpo elettorale;
che parlino, più che al resto del centrodestra, al proprio
elettorato; e che in fondo non siano affatto convinti del sabotaggio
delle riforme da parte di settori infidi della maggioranza: anche
se ieri ci sarebbe stato un contrasto con il presidente del Senato
Marcello Pera sul calendario dei lavori. Semplicemente, vogliono
far sapere ai «padani» in marcia verso le regionali
del 4 aprile, che sono loro, i leghisti, a proteggere il federalismo
da chi finge di appoggiarlo e invece lo boicotta.
Loro sono pronti a rinunciare a candidature alla presidenza di Lombardia,
Veneto e Piemonte, pur di portare a casa il bottino grosso. E ancora
loro non hanno paura nemmeno di far saltare il governo, se non li
asseconda. Ma è poco probabile che lo facciano davvero. Dal
2001, per Silvio Berlusconi la Lega è stata l'alleato più
fedele e lucido; almeno finché Bossi è stato bene.
Tuttora può contare sull'appoggio e la comprensione del presidente
del Consiglio, che in passato ha giocato la carta leghista per contenere
le ambizioni e sventare le manovre di compagni di strada come An
e Udc.
Non a caso, ieri sera è stato il premier a legittimare e
insieme svuotare la minaccia di Calderoli, assicurando che «non
ci saranno ritardi sulle riforme e dunque non c'è bisogno
di rimettere nessun mandato». Non solo. Mai come negli ultimi
tempi, il leghismo ha bilanciato la sua carica quasi geneticamente
«eversiva» con sorprendenti convergenze con i centri
del potere anche finanziario: segno che oggi il «partito del
Nord» è portato, se non costretto a essere molto più
di governo che di lotta; e attento alle istituzioni «romane»
più di prima, sebbene con qualche sofferenza.
Per questo, lo scarto di Calderoli è obbligato, e insieme
apparente. Obbligato, per lucidare l'immagine e l'identità
primordiali di un movimento consapevole della propria progressiva
istituzionalizzazione; apparente, perché di questa coalizione
di governo la Lega ha bisogno quanto gli alleati hanno bisogno di
Bossi: in primo luogo per realizzare il federalismo. Uno dei leader
di FI ieri sera commentava che «in questa vicenda il filo
fra realtà e irrealtà è molto sottile».
Voleva dire che per il centrodestra, le minacce leghiste alla vigilia
delle regionali sono un danno; ma anche che sono basate su una visione
volutamente irreale della situazione, perché nessuno nella
coalizione punterebbe a far saltare le riforme: anche se quasi tutti
le considerano un pasticcio, se non un pericolo.
Nelle prossime ore, è possibile che la tensione venga tenuta
alta. Una conferma indiretta viene da un altro ministro leghista,
Roberto Maroni, che annuncia l’uscita di scena dell’intera
delegazione dal governo se la devolution non viene approvata entro
Pasqua. Lo stesso Calderoli giura che le sue dimissioni sarebbero
«irrevocabili». Tutto è possibile. Gli alleati
si dividono fra pontieri pazienti e dispensatori di sarcasmi contro
le «sceneggiate». L’opposizione oscilla fra l'evocazione
speranzosa di «una Casa delle libertà in pezzi»,
e l'impressione di una lite che si concluderà con l'ennesima
cena di riconciliazione al desco di Berlusconi. Una cosa è
certa: le riforme istituzionali sono l'unica cosa per la quale il
partito dei lumbard sia pronto a rompere. Ma verosimilmente, non
ce ne sarà bisogno: il pasticcio pasquale sarà servito
a Bossi nei tempi pattuiti.
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