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La notizia pubblicata dal «Corriere», che la lingua italiana è stata cancellata da tutte le conferenze stampa (salvo quelle del mercoledì) tenute dai commissari dell’Unione Europea, e che quindi essa è stata esclusa dal gruppo delle cosiddette lingue stabili dell’Unione al quale appartengono francese, inglese e tedesco, riveste una notevolissima importanza politica. Per la prima volta, infatti, se non sbaglio, l’opinione pubblica italiana è informata per un tramite che può ben definirsi ufficiale (la notizia di cui sopra è stata data dal portavoce del presidente Barroso) che il nostro Paese non sarà tra le nazioni guida dell’Unione ma occuperà un posto di seconda fila. È questa una conclusione obbligata, dal momento che risulta davvero assai difficile credere che un Paese la cui lingua è considerata poco importante possa poi rivestire un ruolo politico primario. Ci sarà tempo domani per discutere se un tale esito fosse evitabile o invece fosse in un certo senso scontato da sempre; oggi dobbiamo prendere atto di questo dato politico decisivo: e cioè che dal far parte del novero dei principali iniziatori della costruzione europea ne siamo diventati dei semplici comprimari. Ma non si tratta solo di questo. Attraverso la prospettiva della lingua siamo messi d’improvviso di fronte a un ulteriore aspetto fondamentale della suddetta costruzione europea, rimasto fin qui occultato dalla valanga di retorica che ci viene abitualmente rovesciata addosso quando si parla di Europa. E cioè che questa Europa non sembra affatto destinata a diventare un vero soggetto sopranazionale quanto piuttosto una struttura plurinazionale sottoposta alla leadership permanente, e sia pure bisognosa di consenso, di un ristrettissimo gruppo di Stati nazionali. Le formazioni statali piccole e medie lentamente forse si stempereranno, perderanno vigore e consistenza, ma gli Stati grandi, gli Stati leader certamente invece rimarranno nel pieno del loro rango e del loro potere, specie simbolico. È precisamente questo ciò che ci dice il modo in cui la questione della lingua si sta ponendo. L’italiano cessa di essere una lingua dell’Unione, infatti, ma non già a pro di una fantomatica, e inesistente, lingua europea, bensì a pro del francese, del tedesco e dell’inglese, che se non sbaglio sono le lingue di tre Stati che si chiamano Francia, Germania, Gran Bretagna, i quali quindi ne risultano accresciuti come culture, come società, come tradizioni storiche, insomma come Stati nazionali appunto. Altro che superamento dei medesimi in nome dell’Europa. In tutto ciò,
naturalmente, paghiamo anche errori nostri. Come giustamente ha ricordato
il presidente della Crusca, Francesco Sabatini, nell’intervista
a Paolo Di Stefano sul «Corriere» di ieri, la decisione di
Bruxelles è anche il frutto della svogliataggine, della pigrizia
burocratica con cui, complice non trascurabile la cronica mancanza di
stanziamenti, gli enti e le amministrazioni italiane preposte alla diffusione
della nostra lingua e della nostra cultura interpretano da decenni il
proprio ruolo: la «Dante Alighieri» da gran tempo sopravvive
a se stessa; gli Istituti italiani di cultura all’estero, dal canto
loro, sono troppi, privi di mezzi e per lo più considerati dalla
Farnesina come l’ultima delle sue preoccupazioni. Più in
generale - e ciò che è più grave - manchiamo da sempre
di una visione e di una guida politiche che comprendano come una delle
principali carte che l’Italia possiede, per consolidare e illustrare
il proprio ruolo sulla scena del mondo, è la carta rappresentata
dalla sua straordinaria vicenda culturale. I risultati si vedono. |
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Ma impariamo ad amarla e tutelarla | ||||||||
di Nicola De Blasi per Il Mattino | ||||||||
Non è chiaro quali criteri di valutazione abbiano dettato l’ orientamento ad escludere l’italiano dal numero delle lingue europee considerate di importanza generale; forse potrebbe trattarsi solo di una scelta suggerita da esigenze di economia. Se fosse così, però, si capirebbe meglio la riduzione a una o al massimo a due lingue ufficiali. Sembra peciò probabile che vi siano anche altre considerazioni. Non è impossibile ad esempio che nei confronti dell’italiano abbiano pesato due o tre valutazioni tra loro in apparenza opposte, che forse coincidono anche con alcuni luoghi comuni diffusi anche da noi. In primo luogo, l’idea corrente secondo cui l’italiano avrebbe una scarsa propensione internazionale; la seconda idea è quella che vede una diffusione dell’italiano legata soprattutto a fasti letterari e culturali del passato, sostenuta per esempio dal prestigio del Petrarchismo, della grande cultura del Rinascimento, quindi connessa soprattutto a una fortuna nella dimensione della scrittura più che della comunicazione parlata. Un terzo possibile motivo potrebbe fondarsi sulla connessione che molti sono portati a stabilire tra prestigio politico internazionale e prestigio della lingua. Ad una osservazione superficiale, tutti questi tre aspetti vedrebbero l’italiano in qualche modo «perdente». Ma procediamo con ordine. Chiunque abbia messo piede una volta in un porto del Mediterraneo, sa che è sempre possibile incontrare qualcuno che per esigenze di lavoro ha imparato qualcosa della nostra lingua: è vero adesso che si può contare sui satelliti televisivi, ma era vero nel Medioevo e nell’età moderna, quando mercanti, pescatori e diplomatici facevano entrare l’italiano nell’orizzonte dei parlanti delle altre sponde del Mediterraneo. Un esempio per tutti: nel 1774 l’italiano funzionò come lingua-ponte in un trattato tra Russi e Turchi. A giustificare quella scelta non intervenivano, in quell’epoca, né il peso politico dell’Italia, né il prestigio del Petrarchismo e della letteratura. Il prestigio culturale giocava però un ruolo determinante nella Vienna del Settecento, dove l’italiano era lingua privilegiata della conversazione colta, anche grazie al veicolo della musica. In un caso e nell’altro, come ha felicemente dimostrato Francesco Bruni, l’italiano era una «lingua senza Impero», che riusciva ad affermarsi senza imposizione politica e senza gli argomenti delle conquiste militari. La storia, quindi, può anche insegnare che il peso politico non è il solo criterio che determini per una lingua il riconoscimento di lingua internazionale. Ma la storia non gode in questo momento di molta popolarità: ci sentiamo immersi solo nel presente e proiettati nel futuro, ma ignoriamo che proprio dalla storia, anche dalla storia della nostra lingua, abbiamo molto da imparare. Così come dovremmo tener presente che c’è un vincolo inscindibile tra lingua e cultura, dove cultura è da intendere in riferimento a tutti gli aspetti dell’umano operare. Nella nostra inspiegabile tendenza a svalutare la cultura letteraria e la storia - e veniamo ai problemi di casa nostra -, finiamo col dimenticare che la nostra lingua esprime tutto l’insieme delle nostre risorse culturali e che non è possibile scindere i valori della cultura nazionale (in tutte le sue componenti anche locali) dalla valorizzazione della nostra lingua. Ma come si valorizza una lingua? Non occorrono operazioni dirigistiche o impalcature politiche, ma basterebbe un pizzico di fiducia e un po’ di attenzione meno superficiale a certi aspetti. Per esempio: siamo sicuri che facciamo abbastanza pe diffondere all’estero lo studio dell’italiano? E nella nostra scuola adesso si fa davvero abbastanza per promuovere presso i nostri studenti la conoscenza dell’italiano come lingua? Mettere al centro della nostra scuola la «I» dell’italiano, in particolare quella dell’italiano scritto, prima delle altre «I», è forse un primo passo per avviare, a partire da noi, una rivalutazione dell’italiano. Gli altri forse seguirebbero il nostro esempio: anzi, tutti gli studenti stranieri che vengono ogni anno a frequentare le università italiane, dimostrano che, se non la Commissione europea, certo molti parlanti europei ci hanno già preceduti nel valorizzare la nostra lingua. Molti vengono in Italia attratti dalle bellezze storico-artistiche, altri dalla nostra letteratura, altri dal sole e dal mare, altri per dal nostro cinema e dal nostro teatro, dalla nostra cucina, altri vengono qui soltanto perché considerano l’italiano una lingua bella. Proviamo dunque a seguire il loro esempio e a prestare più attenzione e più amore verso la nostra lingua; forse riusciremo a essere più persuasivi e convincenti anche all’estero. |