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In Brasile l’Italia piace

di Antonio Galdo su IL MATTINO del 19/06/2005


 

 
La specialità di donna Maria Rocco Casa, la moglie di Luiz Inacio Lula, presidente del Brasile, è la lasagna, come ha capito bene il compagno Fidel Castro. Dopo una visita di Stato e una cena nella residenza presidenziale, appena rientrato a L’Avana, Fidel ha alzato il telefono e ha chiesto a donna Maria la ricetta di quella prelibatezza gustata a casa Lula. «È un piatto che ho imparato da ragazza, non dimenticarti che mio nonno era un emigrante che lavorava nelle piantagioni di caffè a San Paolo, e quindi nelle mie vene scorre il sangue italiano...» ha scherzato la first lady. E oggi anche lei, come trecentomila brasiliani, ha chiesto la cittadinanza italiana. Una valanga di domande, gonfiate dai certificati di nascita che dimostrano la parentela con un nonno, uno zio, un padre, nati negli anni della grande emigrazione verso l’America latina. Montagne di carte che hanno mandato in tilt gli uffici dei nostri consolati, dove il tempo di attesa per chiudere una pratica e ottenere il doppio passaporto sfiora i nove anni. Perchè tanta voglia di Italia? Le risposte sono due. Innanzitutto ci sono le ragioni sentimentali in un paese che ha una vera doppia identità, dove circa 25 milioni di brasiliani presentano una traccia, un’origine, che riporta al Veneto, al Trentino, alla Campania e alla Sicilia. Poi c’è un obiettivo pratico, concreto. Diventare italiano significa, in questo momento, entrare nella comunità internazionale dalla porta principale, l’Europa. Un’opportunità per non sentirsi più cittadini di serie B, che quando viaggiano negli Stati Uniti hanno bisogno del visto e sono guardati con la diffidenza dei soliti, inaffidabili sudamericani. Nel giro di pochi decenni gli italiani in Brasile sono diventati una fetta importante dell’establishment nazionale. Molti di loro ancora ricordano le leggi razziali del dittatore Getùlio Vargas che, dopo la seconda guerra mondiale, decise di vietare l’uso dell’italiano. Ovunque. Vargas era un Mussolini alla rovescia: il duce era entrato in guerra convinto che, dopo un conflitto-lampo, avrebbe incassato il dividendo della vittoria; il dittatore brasiliano fece la stessa cosa, solo che si schierò dalla parte giusta. E volle dare un segnale agli alleati discriminando gli emigranti arrivati all’inizio del secolo con la valigia di cartone e le scarpe bucate. Oggi, invece, gli italiani sono di gran moda, e in tutte le più importanti città hanno i loro luoghi simbolo. A San Paolo, il sindaco (che qui ha il titolo di prefetto) José Serra ha piazzato uffici e residenza nel palazzo della famiglia napoletana dei Matarazzo. Francesco Matarazzo è entrato nella leggenda brasiliana, libri di storia e biografie lo celebrano come «il più grande industriale del Paese», e sono iniziate le riprese di un film che ripercorre la sua vita e già si annuncia come il successo della prossima stagione cinematografica. Purtroppo, come tutti gli imperi economici che devono affrontare i passaggi generazionali, anche quello dei Matarazzo si è dissolto, sebbene si contano 400 eredi della dinastia napoletana. Tutti benestanti. Marta Suplicy, che guidava il municipio di San Paolo prima di Serra, è sposata e separata proprio con uno dei discendenti del conte Francesco e, sentendo quel cognome troppo ingombrante, aveva deciso di cambiare nome al palazzo e intitolarlo ai «senza terra» brasiliani. Poi il nuovo sindaco ha rimesso a posto le lancette della storia e il palazzo del Comune ha ripreso la sua corretta identità. A Curitiba, una cittadina di quasi due milioni di abitanti con un indice di verde procapite pari al triplo di quello ritenuto ideale dalle Nazioni Unite, sembra di stare in un centro urbano del Nord Europa. Strade ordinate e pulite, boschi verdi trasformati in parchi pubblici, gente che attraversa le strade in bicicletta, un meraviglioso museo di arte contemporanea, a forma di occhio, disegnato dall’architetto Oscar Niemeyer. Il motivo di tanta disciplina civica è collegato alla provenienza geografica dell’emigrazione: a Curitiba sono arrivati i tedeschi, i polacchi e i nostri trentini, portando qui stili di vita europei evoluti e disciplinati. Compresa la santa più venerata del Brasile, Paulina Visenteiner, una sorta di madre Teresa di Calcutta locale. Italianissima. Al contrario, a Rio de Janero, la città dell’allegria carioca, gli italiani, prevalentemente gente del Sud, si sono piazzati nei gironi della cucina e del pallone. Nello Stato di Rio si contano ormai 2.500 ristoranti con l’etichetta tricolore, e la squadra del Fluminense ha al centro del suo gagliardetto la bandiera bianca, rossa e verde. Quando si riuniscono nella sede del club, un intero palazzo liberty, i soci del Flumiense, che gode della forza di un azionariato popolare di 50.000 tifosi, concludono le assemblee tutti in piedi, cantando i due inni nazionali. Brasiliano e italiano. Se sull’impero Matarazzo è tramontato il sole, altre star italiane sono venute alla ribalta nell’industria brasiliana. Come gli eredi di Luigi Papaiz, un bolognese che nagli anni Cinquanta impiantò in Brasile una piccola officina meccanica: oggi gli stabilimenti di Diadema e di Salvador de Bahia assicurano alla famiglia Papuiz il controllo del mercato degli impianti di sicurezza meccanici venduti in Brasile. Una vera fortuna. Un altro personaggio che ha fatto strada è Fernando Furlan, veneto, amministratore delegato della Sadia, uno dei più importanti gruppi alimentari dell’America latina, ministro dell’Industria nel governo Lula. Spinte dal vento di un’economia che, a differenza di quella europea, viaggia a un buon ritmo di crescita, e favoriti da incentivi e leggi per lo sviluppo del territorio, stanno lentamente arrivando in Brasile anche le nostre piccole imprese. A Uberlandia, nello Stato del Minas Gerais, si sono insediate 15 aziende del mobile made in Italy, che intendono realizzare un piccolo distretto locale. La baia di Rio dal prossimo mese sarà attraversata dai catamarani fabbricati dalla italiana Rodriguez: otto minuti il tempo previsto per la navigazione. Più difficile, invece, lo sfondamento nel settore alimentare, dove scontiamo anni di distrazioni e l’assenza di una politica commerciale. In ogni città del Brasile ci sono uffici delle Camere di commercio e dell’Ice, ma il nostro olio d’oliva, il migliore del mondo, non si riesce a vendere. Abbiamo appena il 4 per cento del mercato brasiliano con i marchi del made in Italy, nulla rispetto al 50 per cento degli spagnoli e al 35 per cento dei portoghesi. Quanto alle grandi imprese, quelle italiane sono riuscite ad affermarsi nella zona di frontiera tra la politica e gli affari, un’area che in Brasile è affollata di mediatori veri e finti. La Fiat è leader del mercato, con le sue auto ad alcol prodotte in ben 15 stabilimenti: se il gruppo di Torino andasse ovunque come in Brasile, avrebbe risolto tutti i suoi problemi. Anche la Pirelli è al vertice del mercato dei pneumatici e nelle fabbriche brasiliane del gruppo lavorano 7.000 dipendenti. La Telecom ha stretto i denti, ed è riuscita a sbarcare, con il marchio Tim, nel ricco e promettente mercato dell’Umts: praticamente viene considerata un’impresa nazionale e con 12 milioni di clienti è al secondo posto nella classifica degli operatori locali per volume di traffico. L’Eni soffre il monopolio della Petrobras, l’azienda petrolifera di Stato, ma è riuscita a infilarsi nel pool delle società straniere che partecipano alle ricerche di nuovi giacimenti di petrolio. Sul fronte della finanza, Generali ha il controllo di un’importante compagnia di assicurazione, mentre con troppa disinvoluta abbiamo abbandonato il campo bancario lasciando terreno libero ai grandi istituti di credito spagnoli. E adesso, rientrare nel giro delle banche brasiliane è diventato impossibile. I grandi gruppi dell’industria e della finanza hanno una sponda importante nel club degli italiani al vertice della politica brasiliana. Si tratta di cinque ministri, tre governatori, 58 parlamentari e il 25 per cento dei sindaci di tutto il Paese. Un vero partito di maggioranza. Tra i governatori di origine italiana, il più popolare è Germano Rigotto, presidente dello Stato Rio Grande do Sul. Rigotto è un mini-Berlusconi, dotato di un particolare feeling con i suoi elettori. Vederlo entarre allo stadio di Porto Alegre, durante la partitissima Brasile-Paraguay, è stato uno spettacolo: strette di mano, abbracci, baci. Per tutti. Come nei comizi, quando Rigotto non dimentica mai di abbracciare, uno per uno, i suoi sostenitori politici. E il governatore dello Stato Rio Grande do Sul potrebbe essere la grande sorpresa nelle prossime elezioni presidenziali previste per il 2006. L’italiano Rigotto è entrato, infatti, nella ristrettissima rosa dei candidati al ruolo di sfidante di Lula, anche grazie allo scontro in famiglia tra il sindaco di San Paolo, Serra, che ha già perso nel 2002 la sfida con Lula, e il governatore dello Stato di San Paolo, Gerarldo Alckmin. Il presidente del Brasile è ancora in testa nei sondaggi e il fatto che l’opposzione non abbia scelto un leader lo avvantaggia di fronte agli elettori. Ma la stella di Lula perde brillantezza ogni giorno, sotto i colpi di due polemiche devastanti per la sua credibilità. La prima è alimentata dall’ala sinistra del partito dei lavoratori, che continua a presentare a Lula il conto delle sue promesse elettorali a favore della parte più debole della popolazione, e non accetta la politica neoliberista del governo. Il secondo punto, sul quale Lula potrebbe definitivamente scivolare, è quello della questione morale, che comprende una serie di scandali con al centro, sempre, l’entourage più ristretto del presidente. L’ultima scoperta riguarda il tesoriere del partito dei lavoratori che avrebbe pagato compensi in nero a parlamentari della maggioranza e dell’opposizione in cambio dei loro voti a favore del governo. E nelle maglie di questa incertezza potrebbe infilarsi, con la sua popolarità, l’italiano Rigotto. Intanto un primato, grazie al voto popolare, gli italiani in Brasile lo hanno già conquistato con il volto acqua e sapone di Carina Beduschi, appena eletta miss Brasile 2005. Carina è di origini mantovane, e anche lei ha chiesto, come donna Maria Rocco Casa in Lula, la cittadinanza italiana. Forse, considerando il suo status di diva nazionale, potrebbe ottenerla prima del prossimo decennio.

19 giugno 2005