FONDAZIONE ITALIA®
 
PRIMA PAGINA
INDICE
 
Sullo scambio dei prigionieri gelo di Parisi e dei militari
 
Silenzio del ministro sulla liberazione
di AUGUSTO MINZOLINI
su La stampa.it/


Seduto su un divano di Montecitorio Paolo Cento, sottosegretario del governo di Romano Prodi, esalta l’efficacia della politica «pacifista» rispetto all’incapacità della diplomazia ufficiale che si fa carico dei nostri rapporti con la Nato. «Se non ci fosse stato Gino Strada, se fossimo andati dietro ai cosiddetti riformisti - sibila - Mastrogiacomo sarebbe ancora nelle mani di Dadullah». Poco più in là il capogruppo dei verdi Angelo Bonelli sulla scia della liberazione del giornalista italiano esalta «il metodo Italia» in contrapposizione al «metodo Nato». «La soluzione militare - osserva - deve ormai lasciare il posto al dialogo e all’attività politica e diplomatica». E questi discorsi ritornano sulla bocca di tutti gli esponenti della sinistra massimalista dal segretario di Rifondazione, Franco Giordano, fino al capo dei neo-comunisti, Oliviero Diliberto. Se a questo poi si aggiunge la proposta lanciata da Piero Fassino di invitare anche i talebani alla conferenza di pace tutta da venire sull’Afghanistan (più di un esperto della Farnesina la definisce una «belinata») si può sostenere che la nostra politica estera ha avuto uno «scarto» rispetto a quella degli alleati e se ne sta andando per conto proprio.

Mettendo in fila tutti questi elementi, infatti, c’è da chiedersi se il governo italiano non abbia già legittimato i talebani innalzandoli dal ruolo di terroristi a quello di interlocutori politici sullo scacchiere afghano e, magari, non stia mettendo le basi per una «pace separata». Quest’ultima è una «provocazione» che un ex presidente della Repubblica come Francesco Cossiga, si sente di raccogliere. «Dopo la liberazione di Mastrogiacomo - spiega sul filo dell’ironia l’ex capo dello Stato - sono sempre più contro la nostra missione a Kabul. E’ un atto ostile nei confronti dei talebani e questi potrebbero vendicarsi contro le nostre forze militari. In più credo che la liberazione non sarebbe stata possibile se le nostre forze militari non fossero tuttora neutrali. Una neutralità che il governo deve rafforzare dando una mano ai talebani e ad Al Qaeda per garantirci l’immunità da attentati terroristici».

A questo punto l’interrogativo che Cossiga implicitamente pone è quantomai legittimo: cosa ci stanno a fare i nostri soldati a Kabul? La questione se si sta ai fatti è tutt’altro che peregrina. Ad esempio, mentre i contingenti Nato sono impegnati in una vera e propria guerra, i soldati italiani debbono sottostare al continuo controllo politico di chi all’interno della maggioranza di governo (la sinistra massimalista) non vuole che sparino un colpo. Ed ancora: da una parte la liberazione del giornalista italiano in cambio di cinque talebani può essere considerata un successo per il nostro governo; ma da un altro punto di vista l’operazione stride con le parole che ieri a Roma il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha speso sui due ostaggi tedeschi in mano agli alleati di Bin Laden: «Non intendiamo farci ricattare da parte di persone che fanno cose disumane a danno di altri essere umani». Se a questo si aggiunge che uno degli accompagnatori afghani del giornalista è stato sgozzato si capisce che il comportamento del governo italiano nella vicenda oltre ad avere tanti lati oscuri non è certo adamantino nei confronti dei nostri alleati: non per nulla il ministro che per competenze è più a contatto con la Nato, Arturo Parisi, ha osservato un rigido - quanto polemico - silenzio, almeno in pubblico. E la sua preoccupazione per le conseguenze di questa storia è largamente condivisa dai vertici militari.

Infine, fatto ancora più sconveniente, proprio mentre il nostro governo era sotto il ricatto dei rapitori, Fassino ha inserito i talebani tra i protagonisti della possibile conferenza di pace. Una mossa che ha suscitato polemiche dentro la maggioranza e fuori. «E’ un’iniziativa - ha rimarcato il ministro Bonino - discutibile e inopportuna. Che ci mette in imbarazzo di fronte ai nostri alleati». Mentre uno degli strateghi del Cavaliere, Fabrizio Cicchitto, è arrivato ad insinuare uno scenario ancora più inquietante: «Non vorrei che le uscite di questi giorni di Fassino e, in parte di D’Alema, non debbano essere messe in relazione con le trattative per il rilascio di Mastrogiacomo. Capisco che in casi del genere si possa pagare per vie traverse un riscatto. Comprendo che si possa arrivare ad uno scambio di prigionieri. Ma non vorrei che in questa occasione il nostro governo abbia venduto anche un pezzo della nostra politica estera. Urge una riflessione sulla nostra presenza in Afghanistan». Non per nulla il centro-destra in vista del dibattito al Senato sta preparando un ordine del giorno che chiede al governo di cambiare le regole d’ingaggio dei nostri soldati per renderli più operativi. Così, a ben guardare, quello che da questa vicenda esce più rafforzato è il mullah Dadullah: è riuscito a far liberare cinque prigionieri talebani tra i quali, secondo l’agenzia afghana Pajhwok, anche il fratello; ieri ha elencato ai giornalisti occidentali, come se fosse il garante della privacy, le regole a cui attenersi per non essere rapiti; e il governo italiano, nei fatti (la proposta di inserire i talebani nella conferenza di pace lo dimostra), lo ha legittimato come un interlocutore. Insomma, da terrorista qual è, ha raggiunto l’obiettivo che avrebbero centrato le Br se avessero liberato Aldo Moro. «Le Br - osserva Cicchitto, già membro della commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento dello statista dc - non ottennero neppure la liberazione di un terrorista che non si era macchiata di delitti di sangue come la Besuschio. Gli eredi del Pci questa volta hanno avuto un atteggiamento opposto a quello dei loro padri. E a Dadullah è andata meglio che a Moretti».

16 marzo 2007